«È passato un quarto di millennio da quando la Svezia approvò quelle norme che per prime diedero ai cittadini l'accesso ai documenti riguardanti la vita pubblica... Eppure duecentocinquant'anni dopo, come dimostrano Ernesto Belisario e Guido Romeo in Silenzi di Stato (Chiarelettere), l'Italia fatica ad adottare alcuni principi di trasparenza consolidati da decenni». Sono parole sacrosante quelle di Giannantonio Stella che il Corriere di ieri pubblica non a caso sulle pagine della cultura. Perché quella della mancata trasparenza, uno dei tabù ancestrali della pubblica amministrazione del Belpaese, è una tara culturale che noi italiani, anche per colpe di tutti noi, facciamo fatica a scardinare. La questione è tremendamente seria. Anche per i professionisti dell'informazione. Per rendere un buon servizio al lettore è necessario partire descrivendo i fatti in modo più fedele possibile. Ma per poterlo fare e per potere poi liberamente esprimere giudizi, elaborare analisi o costruire alternative è necessario partire dalle fonti. Che nella pubblica amministrazione hanno il nome ben preciso atti. Sembrerà un'assurdo, ma uno dei principali ostacoli per chi vuole fare giornalismo con un po' di scrupolo è l'accesso agli atti. Stella nel concludere il suo approfondimento cita, non a caso, Max Weber in una delle sue osservazioni più acute: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni... Lo Stato cerca di sottrarsi alla visibilità del pubblico, perché questo è il modo migliore per difendersi dallo scrutinio critico».
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